Onorevoli Colleghi! - Il fenomeno immigratorio è questione epocale: non solo richiede l'impegno politico prioritario dei Governi e dei Parlamenti, ma investe valori di fondo che segnano il grado di civiltà di un Paese, di una società. Nel corso di questi anni le politiche concrete dell'Italia e dell'Europa si sono misurate spesso su un terreno che ha rimosso o cancellato la condizione di vita quotidiana degli immigrati. I morti senza nome sepolti nei nostri mari o nelle isole, come Lampedusa, fanno notizia per qualche giorno. Poi quelle persone, che cercano di sfuggire alla fame e alle guerre, diventano numeri. Numeri che non possono superare i flussi programmati, salvo entrare automaticamente nella categoria dei clandestini; fantasmi che turbano i sonni e alimentano le insicurezze dei cittadini italiani a cui sono proposti come responsabili di tutti i guai, o comunque come sicuri criminali. Nella migliore delle ipotesi diventano braccia da sfruttare per una stagione.
      Nelle dichiarazioni e nelle statistiche, che pure segnano la differenza tra civiltà e barbarie, non si va mai oltre un pur meritevole concetto di solidarietà umana, fermo restando un contesto dato, cioè un'operazione di razionalizzazione dentro questo mercato, dentro questo sviluppo. Così si tenta persino di ordinare la domanda

 

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e l'offerta di immigrazione, ridotta essa stessa allo statuto di merce. In tal modo non si vedono o non si vogliono vedere, le persone, il dolore, la sofferenza e la deprivazione. In tal modo non si riesce a partire dalla considerazione della persona, dell'immigrato, per ragionare sul modello di sviluppo, ma lo si riduce invece ad entità di compatibilità.
      La collocazione sempre precaria sul mercato del lavoro dello straniero extracomunitario o la sua condizione spesso di clandestino, condizioni non scelte ma subite per sopravvivere, ne sono la concreta testimonianza. Non è un caso che la cosiddetta «legge Bossi-Fini» (legge n. 189 del 2002), nel costruire persino un doppio binario giuridico nel trattamento di cittadini italiani e stranieri extracomunitari, trasformi il permesso di soggiorno in contratto di soggiorno. Fissa per legge, cioè, che la permanenza in Italia dello straniero extracomunitario è limitata al periodo in cui il suo lavoro sarà considerato utile alla nostra economia o alle nostre famiglie. Si nega così, in via di principio, la cittadinanza piena agli immigrati e per questo si consente loro di accedere al massimo alla categoria dell'elemosina per giustificare le ricorrenti sanatorie cui attingere manodopera per i nostri lavori poveri.
      Parliamo di un fenomeno sociale e per questo politico. Un modello sociale, il nostro, che genera lavoro povero e che, all'estremo di questo lavoro povero, non è in grado di garantire nemmeno la copertura. Un fenomeno che chiama in causa l'organizzazione del lavoro e la distribuzione del reddito da lavoro. Ma questa è la condizione prodotta da una globalizzazione capitalista che causa crisi, che genera mobilità assoluta delle merci e dei capitali, ma non consente quella degli uomini e delle donne.
      La clandestinità, dunque, si presenta come patologia propria di un sistema socio-economico, di un mondo attraversato da guerre «preventive ed infinite», e di un impianto legislativo che tenta di costruire fortezze invalicabili. Ma l'immigrazione è ormai fenomeno strutturale, che non verrà impedito con i cannoneggiamenti alle frontiere e con i rimpatri forzati, né verrà disincentivato con i regimi separati che negano diritti e generano precarietà. Si tratta perciò di invertire le politiche italiane ed europee fin qui praticate e di tradurle in modelli di società e di sviluppo davvero alternativi.
      In questo contesto, la questione del diritto di voto ai cittadini stranieri extracomunitari si impone con particolare rilevanza. Essa rappresenta simbolicamente e concretamente il riconoscimento dei diritti civili, giuridici e politici, requisiti indispensabili per una effettiva partecipazione in una realtà sociale. Non è un caso che la maggioranza dei cittadini italiani si dichiari favorevole al diritto di voto per chi lavora e paga le tasse. Perché questo è nell'ordine del buon senso comune. Ma riconoscere la legittimità del diritto di voto, significa, nella società globale, anche riconoscere altre soggettività in un quadro di diritti universali e universalmente riconosciuti. Significa invertire la tendenza ad imporre precarietà per garantire lavori e servizi. Significa affrontare per tutte e tutti, italiani e stranieri, la questione della rappresentanza politica e istituzionale, anche mettendo in discussione gli attuali sistemi.
      Il diritto di voto chiama in causa una nuova stagione di diritti fondamentali per tutte e tutti, in un mondo attraversato da migrazioni irrefrenabili e da soggetti migranti destinati a incrociare e a relazionarsi con altre storie, culture, abitudini. Il livello di accoglienza e di ricchezza umana e sociale che si potrà trarre da queste esperienze (o il suo contrario) è destinato a segnare la vita delle nostre città e dei nostri quartieri, nonché il grado di civile convivenza del continente Europa. Per queste ragioni, consideriamo necessario, oggi, affrontare insieme la questione dei diritti, ponendo il tema della cittadinanza.
      Il primo provvedimento organico sulla cittadinanza italiana è rappresentato dalla legge 13 giugno 1912, n. 555. Questa legge, pur con dei limiti, ha introdotto nell'ordinamento italiano un sistema omogeneo destinato a rimanere in vigore, sia pure con significative modifiche, per ottant'anni
 

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fino cioè, all'entrata in vigore della legge 5 febbraio 1992, n. 91. Tale legge, pur essendo stata approvata da più di un decennio, risente del clima socio-economico di quegli anni, ed ha recepito solo marginalmente il fenomeno rappresentato dall'immigrazione dall'estero di consistenti flussi di stranieri senza alcun precedente legame con l'Italia. Anche confrontandola con quelle degli altri Stati membri dell'Unione europea, la legge 5 febbraio 1992, n. 91, non appare in grado di recepire la domanda derivante dalle attuali dimensioni del fenomeno dell'immigrazione. Di qui la totale inadeguatezza della normativa vigente in tema di concessione della cittadinanza. Un esempio per tutti è rappresentato dallo ius sanguinis, il diritto di sangue, il principio in base al quale è cittadino italiano chi nasce da genitori italiani o chi ha uno degli ascendenti in linea diretta di secondo grado con cittadinanza italiana. Tale criterio fondante si contrappone allo ius soli, basato sul luogo di nascita, che nella normativa vigente è subordinato a condizioni fortemente restrittive.
      La diversità socio-culturale rappresenta per il nostro Paese una ricchezza da non disperdere e uno dei pilastri della costruzione democratica della Repubblica. Non a caso riteniamo che la parola chiave sia «interculturalità» concettualmente diversa dalla parola «integrazione», che mantiene un'ambiguità di fondo. Il fine ultimo è dunque creare un maggiore senso di identificazione, nel rispetto delle diversità linguistiche, religiose e etiche, e un maggiore coinvolgimento nelle istituzioni politiche, anche, e non solo, attraverso il diritto di voto.
      La cittadinanza è la condizione giuridica di chi appartiene a uno Stato ed è titolare dei diritti politici, che si esercitano secondo il suo ordinamento, e dei relativi obblighi. L'odierno dibattito politico concentra la sua attenzione sul problema del diritto di voto dei cittadini stranieri. Per le ragioni di ordine sociale, etico e politico che abbiamo fin qui illustrato, si rende necessario fare un salto in avanti ed affrontare il tema dei diritti degli stranieri in modo più complessivo. È fin troppo evidente che è il diritto di voto a dover discendere dallo status di cittadino e non viceversa. Il concetto di cittadinanza esprime dal punto di vista giuridico il complesso di diritti e doveri che legano i cittadini allo Stato.
      La presente proposta di legge si pone un obiettivo rilevante: riconoscere la cittadinanza quale diritto soggettivo, ovvero riconoscere tale condizione giuridica quale posizione direttamente garantita dal legislatore, in modo da assicurare al titolare il soddisfacimento di una propria utilità sostanziale.
      Tale obiettivo è raggiunto tenendo conto di due criteri fondanti: scardinare i rigidi princìpi che hanno ispirato la normativa vigente ampliando e semplificando i criteri di acquisizione della cittadinanza italiana, tra cui, fondamentale, l'abbassamento a tre anni dell'obbligo di risiedere in Italia; snellire la procedura di acquisizione affidando gli adempimenti burocratici - la cui disposizione è rinviata ad un apposito regolamento - alla prefettura- ufficio territoriale del Governo della provincia nel cui territorio risulta risiedere il richiedente. Ne consegue pertanto che la cittadinanza diventa a tutti gli effetti un diritto soggettivo, designando la posizione giuridica del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.
      Riteniamo che questi due aspetti insieme possano garantire il necessario adeguamento delle parti sostanziali della normativa vigente all'attuale situazione socio-economica caratterizzata da un fenomeno immigratorio rilevante.
      La presente proposta di legge è concepita come modifica della normativa vigente (legge 5 febbraio 1992, n. 91) di cui tuttavia si mantengono inalterate alcune parti (in particolare gli articoli 1, 2, 12, 14, 17, 19, 20, 21, 23). Altri articoli della medesima legge sono stati invece abrogati perché incompatibili con il nuovo impianto o perché ripresi con qualche modifica in altre parti del presente progetto di legge.
      L'articolo 1 prevede i casi che precludono il riconoscimento della cittadinanza, ovvero la condanna per uno dei delitti previsti nel libro secondo, titolo I, capi I, II e III del codice penale e la sussistenza
 

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di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica.
      L'articolo 2 stabilisce che l'organo competente per il riconoscimento della cittadinanza è il prefetto. Questo articolo estende tale procedura a tutti casi in cui è previsto il riconoscimento della cittadinanza (vedi articolo 4 della presente proposta di legge) consegnando al prefetto competente per territorio il compito di istruire la pratica di riconoscimento della cittadinanza, verificare la sussistenza dei requisiti e concluderla attraverso il rilascio dell'«attestato di riconoscimento della cittadinanza italiana».
      L'articolo 3 prevede il respingimento delle istanze da parte del prefetto qualora sussistano cause ostative.
      L'articolo 4 introduce i requisiti per il riconoscimento della cittadinanza. È qui che al principio dello ius sanguinis si affianca quello dello ius soli, estendendo ai figli degli stranieri nati sul territorio della Repubblica il riconoscimento della cittadinanza. L'obbligo di residenza per la presentazione dell'istanza è abbassato per tutti i casi a tre anni.
      L'articolo 5 stabilisce le condizioni in base alle quali è previsto un nuovo riconoscimento della cittadinanza se persa ai sensi dell'articolo 12 della legge 5 febbraio 1992, n. 91.
      L'articolo 6 stabilisce l'esercizio dei diritti civili per l'apolide e per lo straniero a cui è riconosciuto lo status di rifugiato.
      L'articolo 7 stabilisce norme per gli stranieri, maggiorenni e minorenni, adottati da cittadini italiani in caso di revoca dell'adozione.
      L'articolo 8 stabilisce il termine di un anno per la definizione del procedimento di riconoscimento della cittadinanza.
      L'articolo 9 stabilisce le modalità di conservazione o rinuncia della cittadinanza italiana.
      L'articolo 10 stabilisce l'abrogazione delle disposizioni incompatibili con la legge, fatte salve le disposizioni più favorevoli previste da leggi italiane o da accordi internazionali, e rimanda l'emanazione delle disposizioni necessarie per l'attuazione della legge ad un regolamento, abrogando quelle oggi in vigore.
 

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